Velocità e tamponi: sul Coronavirus il «modello Veneto» esempio per il pianeta

Capita spesso di captare il proprio nome, o qualche termine che ci è particolarmente caro, anche in mezzo alla più grande confusione. Un fenomeno ben noto in psicologia, che magari vale anche per la lettura. O almeno così è per noi, che raccontiamo (o meglio, proviamo a raccontare) il NordEst attraverso le nostre testate, Veneto Economia e Alto Adige Innovazione. Siamo particolarmente attenti a quello che succede accanto a noi. Per questo abbiamo riletto più volte l’intervista che Davide Bassi ha rilasciato al Corriere della Sera. Lo «marcavamo» da un po’, Bassi. Da quando era stato fra i primi a riconoscere (argomentando) il ruolo del «modello Veneto» nell’affrontare l’emergenza del Covid-19. Anche perché l’analisi arrivava da un ricercatore, un fisico di livello, che è stato per nove anni rettore dell’Università di Trento.

Bassi aveva già esplicitato i suoi elogi al Veneto in un intervento sul Gazzettino. Ma, ed è la cosa più importante, ci aveva dato delle risposte alle domande che i dati ci ponevano. Perché il Veneto riesce a contenere il numero delle persone contagiate, nonostante abbia avuto uno dei primi focolai in Italia (Vo’Euganeo), nonostante l’altissimo numero dei tamponi fatti, in termini sia assoluti che percentuali? E come mai un così basso numero di persone ricoverate e anche di deceduti in relazione alle altre regioni? Questione di tempistiche di intervento, ha spiegato Bassi, che sta analizzando l’evoluzione dei dati nel suo blog: il Veneto ha capito prima la gravità della situazione, non solo isolando (questo è stato fatto anche in Lombardia) ma tracciando tutti i casi del focolaio, individuando gli asintomatici e riuscendo, quindi, a limitare le perdite. «Il tempo sprecato dalle altre Regioni e dalle autorità nazionali è costato al Paese molte perdite che si sarebbero potute evitare», afferma Bassi al Corriere.

Ma c’è chi ha saputo imparare dall’esempio, magari correggendo una rotta all’inizio non proprio centrata, sfruttando anche il vantaggio di non avere focolai e quindi preziose ore in più per trarre insegnamento dalla situazione. Ecco cosa risponde Bassi alla domanda su come si siano mosse altre Regioni.

«Per capirlo ho composto due grafici analizzando i dati sui decessi e sui tamponi effettuati. Non in numeri assoluti, visto che il Veneto ha molti più abitanti della Liguria o del Trentino, ma conteggiando i casi per 10mila abitanti. Nel primo ho incrociato la densità di tamponi fatti per abitante con il numero di morti. Come si può vedere, riunite in un gruppo piuttosto compatto verso il fondo, ci sono la maggior parte delle Regioni prese in esame, zone con un livello di progressione dell’epidemia molto differente tra loro, ma tutte accomunate dalla stessa relazione lineare tra tamponi e morti. In quel momento la politica dei test in queste Regioni era quella di sondare solamente i gravemente sintomatici o addirittura le persone decedute eseguendo tamponi post mortem. Tre quadratini sono fuori dal gruppo, uno è la Lombardia con il massimo numero di morti e uno scarso ammontare di test, poi ci sono due punti sulla destra: due territori che hanno applicato da subito la politica di tamponi più diffusi: Veneto e Alto Adige. Ho misurato i dati del Trentino per capire se il risultato più incoraggiante fosse dovuto a una generica appartenenza al Nord Est, ma non è stato così. Con un tracciamento dei positivi simile al dato nazionale il Trentino ha avuto tre volte i morti del Veneto».

Veneto e Alto Adige, due modelli virtuosi, che hanno raggiunto l’obiettivo partendo da situazioni e facendo percorsi diversi. Il Veneto, uno dei focolai del Covid-19, confinante con quella provincia di Brescia devastata dal virus, ha saputo intervenire subito, contenendo i danni. L’Alto Adige, ai confini dell’impero e magari meno toccato all’inizio dalla pandemia, ha ritarato la sua rotta raggiungendo l’obiettivo.

Cosa ci insegna tutto questo? Difficile dirlo, la storia si cristallizza col tempo, così come i dati si analizzano in prospettiva. Ma qualcosa ci resta già: il valore della sanità veneta, troppo spesso dichiarato, ora finalmente in piena luce. E qua torna il Trentino: perché di Revò, un piccolo comune non lontano da Cles, è Luciano Flor, il direttore dell’azienda ospedaliera di Padova. Uomo magari non così presenzialista sui media ma al quale viene riconosciuto, dietro le quinte, il ruolo di deus ex machina della rapida risposta veneta. Ci ricordiamo le prime tende fuori dall’ospedale di Schiavonia? Diciamocelo, in quei giorni ci parevano un po’ cose marziane. Ma sono state anche quelle tende a far sì che, a differenza del resto d’Italia e pur essendo nel pieno del contagio, gli operatori sanitari che lavorano nelle strutture venete non siano rimasti falcidiati dal Covid-19 (discorso a parte, purtroppo, le case di ospitalità per anziani). Così come si intuisce l’importanza dei tamponi, argomento tanto dibattuto. Non si tratta di numeri, no: ma di conoscenza. Sapere quali sono le persone contagiate è la maniera più efficace per monitorare le varie strade della pandemia. Servono i dati, dunque, ma anche le persone. Lo sa il governatore Luca Zaia, che magari qualche piroetta l’avrà pur fatta (da “non vogliamo la zona rossa a Padova e Venezia” a “chiudere tutto” in poche ore), ma un merito indiscutibile ce l’ha: si è da subito affidato agli specialisti, mettendo per una volta la politica sullo sfondo, non in primo piano. Padova e la scuola di medicina dell’ateneo patavino sono in questi giorni baricentro non solo geografico della regione. Nello studio del fenomeno, nel suggerire come affrontarlo, anche nel fare ricerca per contribuire a trovare, meglio prima che poi, un vaccino.

E in Alto Adige? Verrebbe da pensare che si prendono appunti. O chissà, si è giunti alla stessa conclusione seguendo una strada, anzi, un sentiero diverso. Da osservatori a tamponatori, il passo non è affatto breve, ma a quanto pare, decisivo.

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