Padova, perse in due anni 42 aziende nel settore della moda
Negli ultimi due anni a Padova sono sparite quarantadue aziende del settore moda. Il dito è puntato contro la concorrenza sleale, imprese che lavorano in nero, sfruttano i dipendenti e non rispettano regolamenti e ambiente, con il solo scopo di massimizzare i profitti. A dirlo è Laura Dalla Montà, presidente del sistema di categoria tessile abbigliamento e cuoio di Confartigianato imprese Padova.
Secondo i dati di Unioncamere, nel 2018 operavano in provincia di Padova 1780 aziende artigiane del settore moda (tessile, abbigliamento, pelletteria, calzature, pelliccerie, sartorie, pulitintolavanderie e occhialerie), oggi il numero è sceso a 1738. Se si considera il solo comparto dell’abbigliamento, dalle 717 imprese del 2018 siamo passati a 697 imprese attualmente attive.
«Va fatta chiarezza sui laboratori nati al solo scopo di risparmiare sui costi e aumentare i profitti a discapito delle aziende oneste che pagano le tasse e rispettano tutte le regole, pagando, ad esempio, gli alti costi aziendali per ambiente e sicurezza – sottolinea Dalla Montà -. Lavorare nel rispetto delle regole significa operare considerando i giusti turni di lavoro, mettere in atto tutti i piani di sicurezza per evitare gli infortuni sul lavoro, utilizzare macchinari sicuri, realizzare capi con materie prime di qualità che non provochino danni alla salute o non si rovinino al primo lavaggio».
L’ultimo rapporto sulla contraffazione in Europa stima, nel nostro Paese – al terzo posto al mondo tra i più colpiti dalla contraffazione -, che ogni 12 mesi vengono persi 88 mila posti di lavoro, con un mancato gettito fiscale dal commercio all’ingrosso e al dettaglio per 4,3 miliardi di euro, e un mancato pagamento di diritti di proprietà intellettuale ai legittimi titolari italiani per altri 6 miliardi, superando così i 10 miliardi di perdita annua.
«Il termine sostenibilità è tra i più in voga del momento, nel mondo della moda – spiega Dalla Montà – ma se vogliamo essere davvero sostenibili, non possiamo limitarci alle considerazioni di tipo ambientale. Significa anche avere consapevolezza che il capo che indossiamo non è frutto di lavoro nero, ma è realizzato in laboratori che garantiscono il rispetto dei lavoratori e la qualità del prodotto finale».
«Bisogna attuare un cambiamento culturale – conclude Dalla Montà –, sia a livello di operatori che di legislatori e controllori. Un punto di partenza è la “buona pratica” adottata a Prato di applicazione dell’articolo 603 bis del codice penale, introdotto nell’ottobre del 2016 con la Legge 199, che ha riscritto il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, ampliando la tutela delle vittime e migliorando la qualità degli strumenti repressivi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Secondo, presentando al Ministero della Giustizia un progetto di riforma dei reati in materia di lavoro nero e contraffazione nel sistema moda. Una normativa che dovrà essere imperniata sulla figura del consumatore finale. E, sempre pensando al consumatore, che preveda la valorizzazione dell’etichetta parlante, comprensibile e trasparente, che faccia realmente cogliere cosa c’è dietro il prodotto e quale sia il suo valore in termini di rispetto dei princìpi etici e sociali».