La cultura è come la marmellata, se Stato e imprese la promuovono assieme

Rinnovare è un’impresa. Con questa consapevolezza Marina Valensise è entrata per la prima volta all’Hôtel de Galliffet, sede dell’Istituto italiano di cultura a Parigi. In veste di nuova direttrice, nel 2012 è passato a lei il compito di gestire le sorti di un’istituzione dalla storia imponente ma che giaceva abbandonata a se stessa, e di provare a risollevarla, fino a farla diventare un «piccolo centro embrionale di produzione attiva e di qualità». Una fatica coronata dal successo grazie a un metodo applicabile anche al di fuori dei confini francesi, laddove si riscontrino le stesse condizioni di bellezza e ricchezza da gestire con cura e passione. E il pensiero va vicino, allo scrigno di tesori che è Venezia.

La cultura è come la marmellata (Marsilio – che guarda caso è veneziana – , 13 euro) è il racconto dell’impresa di «garantire l’ordinario e coltivare lo straordinario». Di cultura meno ne hai e più la spalmi, per questo a partire da una frase comparsa sui muri della Sorbona un giorno di maggio del ’68 Marina Valensise racconta in dieci capitoli il paradosso di un paese, l’Italia, che non ha bisogno di mettere in mostra la propria cultura, perché ne ha in esubero, ma non sa farne tesoro. L’autrice esalta il genio dell’inventiva italiana, la «lampadina accesa che consente di trovare soluzioni semplici, eleganti e innovative a problemi complessi». Ma il vero problema è amministrare questo patrimonio culturale e presentarlo all’estero.

Il libro di Marina Valensise ha «l’ambizione di servire da fonte di ispirazione per chiunque intenda contribuire al  rilancio di un settore essenziale per la nostra vita civile». Raccontando i quattro anni di lavoro a Parigi e gli incontri nel campo della cucina, dell’architettura, della musica, l’autrice presenta un decalogo dell’«esperienza del fare, a partire dalla carenza dell’avere», in cui spiega che il segreto per far fiorire un’istituzione culturale è lavorare in sinergia tra pubblico e privato superando la reciproca diffidenza.

«È la valorizzazione partecipata in vista della promozione della cultura: lo Stato offre all’impresa ciò che l’impresa non può produrre in proprio, e cioè il prestigio di una sede istituzionale, la legittimazione culturale del valore aggiunto prodotto da una manifattura di qualità, la possibilità di irradiazione internazionale ben oltre i semplici canali dell’export. Il privato dà allo Stato ciò che lo Stato non può avere, e cioè un metodo e una strategia industriale, un prodotto di qualità, che ha valore esemplare in quanto è l’effetto di una ricerca e di un’innovazione che costituiscono di per sé un premio per l’industriosità, e quindi offrono una delle testimonianze più vive di una nazione e della sua ricchezza».

Il decalogo di Marina Valensise

Nel suo decalogo l’autrice spiega che non bisogna abbattersi di fronte all’incuria, ma superare gli ostacoli con passione, unendo alla fiducia nella sorte una buona pratica di virtù. Imparare a guardare oltre le apparenze, a sognare in grande, a non avere paura della novità, sempre con entusiasmo, senza lasciarsi intimidire da una risposta negativa, ma sapendo che in fin dei conti l’unione fa la forza. Infine, lasciare le cose meglio di come si sono trovate. E si può dire che la direttrice dell’Istituto italiano di cultura a Parigi abbia raggiunto il suo scopo, portando ad aumentare del 40% il numero di visitatori dell’istituto, a organizzare ben 260 iniziative in un solo anno e a raddoppiare le entrate annuali rispetto alla dotazione statale.

Sono 90 gli Istituti di cultura nel mondo, che dipendono dal ministero degli Affari esteri, e quelli italiani si trovano a Parigi, Berlino, Londra, Madrid, Tokyo, Pechino, Mosca, New York, Budapest, Tel Aviv e Bruxelles. Per dirigerli vengono chiamate «personalità di chiara fama, dotate cioè di indiscusso prestigio culturale e di comprovate competenze per assolvere il delicato ruolo». Marina Valensise (Roma 1957), giornalista, è esperta di storia e di Francia e ha tradotto le ultime opere di François Furet, storico francese. Ha diretto l’Istituto italiano di cultura a Parigi dal 2012 al 2016. Collabora con il Foglio dal 1996 e lavora per diversi settimanali.

Rebecca Travaglini

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