Troppe assenze per la fecondazione in vitro? È licenziamento discriminatorio
È la Corte di Cassazione a fare chiarezza sul tema dei licenziamenti discriminatori e ritorsivi. Un tema delicato su cui ci aiuta a fare luce l’avvocato Francesca Marchesan, specializzata nel contenzioso fra aziende e dipendenti, collaboratrice di SHR Italia, con un intervento sul magazine online Il futuro al lavoro dell’avvocato Gianluca Spolverato. Il punto di partenza è una sentenza recente della Corte di Cassazione (la numero 6575 del 5 aprile 2016) in cui la Suprema Corte definisce discriminatorio, confermando la decisione in appello, il licenziamento di una dipendente che aveva comunicato al datore di lavoro l’intenzione di sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale, licenziamento motivato dal fatto che «le sue plurime assenze avrebbero determinato inevitabili ripercussioni sulla funzionalità dell’attività datoriale» spiega Marchesan.
Dove sta la discriminazione? Nel fatto che «i trattamenti di fecondazione in vitro a cui la lavoratrice si sarebbe sottoposta riguardano direttamente e soltanto le donne, con la conseguenza che il licenziamento di una lavoratrice determinato dal fatto che questa si sottoponga al predetto trattamento costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso» spiega la legale.
Nove ragioni che rendono un licenziamento discriminatorio
Quella di genere è una delle nove ragioni che rendono un licenziamento basato su di esse discriminatorio. Eccole tutte e nove: ragioni di genere (vale a dire basate sul sesso), politiche, religiose, razziali, etniche, nazionali, di orientamento sessuale, di handicap e di affiliazione sindacale. Solo in questi casi il licenziamento si può definire discriminatorio. Non lo è invece, ad esempio «quello che trova origine nel tifo calcistico» è l’esempio portato dall’avvocato. Quando c’è discriminazione il licenziamento viene definito nullo. E di conseguenza il lavoratore discriminato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro.
Due tipi di discriminazione di genere
A sua volta la discriminazione di genere può essere di due tipi, diretta o indiretta. Diretta quando un atto produce «un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga» ( 25, comma 1, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, d.lgs. 198/2006).
La discriminazione è indiretta quando atti apparentemente neutri mettono in posizione di svantaggio i lavoratori che appartengono a un determinato sesso, nei confronti dell’altro sesso. Resta salvo il caso in cui ci si riferisca a requisiti essenziali per lo svolgimento di un certo lavoro.
E il ritorsivo?
Altra casistica è quella del licenziamento ritorsivo, detto anche per rappresaglia. Si tratta in questo caso di una reazione ingiusta, arbitraria, a un comportamento legittimo del lavoratore o di una persona a lui legata. Ecco alcuni esempi molto chiari forniti dall’avvocato Francesca Marchesan: «È ritorsivo il licenziamento di un lavoratore la cui moglie, dipendente della medesima azienda, abbia aderito allo sciopero; è ritorsivo il licenziamento di un lavoratore che ha fatto causa al datore di lavoro per ottenere il pagamento di differenze retributive».
Attenzione: in questo caso il motivo ritorsivo, la “rappresaglia”, deve rappresentare l’unica ragione che ha determinato il licenziamento. Altrimenti, se ci sono anche altre motivazioni, il licenziamento non viene definito nullo ma semplicemente illegittimo o ingiustificato, e quindi come prevede il nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c’è il reintegro automatico. I dettagli delle conseguenze per l’azienda, sul magazine Il futuro al lavoro.