Fabio, lo startupper non vedente che trasforma la disabilità in forza
La disabilità? Può diventare un punto di forza. Basta avere tenacia, coraggio e un po’ di sano spirito imprenditoriale. Ce lo racconta la storia della startup Yeah, o meglio di Fabio Lotti, ragazzo non vedente che dopo la laurea in economia si è inventato un modo per insegnare a chi come lui è disabile a sfruttare al meglio i servizi che la società offre, ma anche alle strutture a dotarsi degli strumenti adatti per accogliere i disabili. Lo ha fatto dando vita a una startup che si chiama Yeah e nasce con un preciso obiettivo: «Ho voluto rendere un più quello che solitamente è un meno», racconta Fabio, che sogna una società senza barriere di alcun tipo. E ce l’ha fatta.
Fabio Lotti, di Arcugnano (Vicenza), classe 1987, laureato in economia a Verona nel 2012, dopo la laurea non è rimasto ad aspettare che l’opportunità di un lavoro gli piovesse dal cielo, ma si è dato da fare perché, dice, «dobbiamo essere noi a creare lavoro se non c’è». E così si è rimboccato le maniche e ha creato una startup che si rivolge a persone con disabilità visiva parziale o totale. E questo perché anche lui, l’economista veronese, è nato con gravi problemi alla vista, e da ipovedente durante l’infanzia è diventato completamente cieco negli anni dell’università.
Gli studi e il pregiudizio: un disabile in azienda è un peso
La disabilità però non è mai stata per lui un limite e Fabio ha voluto studiare per poter ambire a una posizione professionale di buon livello. Pensava di avere un curriculum competitivo sul mercato del lavoro, arricchito anche da un master universitario. Ma ha dovuto ricredersi quando si è accorto che i selezionatori presso cui ha sostenuto i primi colloqui non riuscivano a liberarsi dal pregiudizio che assumere un disabile significhi doversi sobbarcare un peso in più. Questo nonostante le politiche di inserimento aziendale dei disabili promosse da più parti. Tutto ciò accade, sostiene Fabio, perché non si conosce ciò che un cieco può fare grazie a tecnologie come Internet o le sintesi vocali.
E allora lui ha deciso di “rendere un più quello che solitamente è un meno”. «Il mio talento è stato quello di crederci. Farci conoscere e apprezzare in quanto minoranza». Insieme all’amico Marco Andreoli, ipovedente come lui, ha deciso di creare una startup specializzata nei temi della disabilità e dell’accessibilità dei servizi alla persona.
I progetti di Yeah
Progetto Yeah si occupa di organizzare corsi di formazione e consulenze che insegnano a persone con disabilità soprattutto visiva come sfruttare le moderne tecnologie. Gli ambiti di intervento sono diversi, tutti basati sull’abbattimento di barriere: si va dai servizi concreti per persone ipovedenti e cieche quali assistenza nell’uso di smartphone, tablet e computer (e queste sono le barriere digitali), alla formazione del personale, lo sportello di ascolto, l’educazione ai temi della disabilità in famiglia e a scuola (per abbattere le barriere relazionali), fino all’eliminazione delle barriere fisiche vere e proprie, e questo riguarda l’accessibilità agli spazi pubblici e privati, con un’attenzione particolare riservata al “turismo accessibile”.
Come avviare una startup di successo?
Ma come è nata Yeah? Il progetto fa parte della Cooperativa sociale Quid Onlus ed è partito a Verona nel 2013. La base è stata un approccio di problem solving – una delle qualità trasversali più richieste sul mercato del lavoro – per reagire agli ostacoli che Fabio doveva affrontare nella vita di tutti i giorni per il fatto di non vedere. Ma fin da subito si è dimostrato essenziale bandire ogni aspetto soggettivo e allargare l’orizzonte a un’ottica di gruppo, in cui si riflette insieme su un bisogno insoddisfatto e si cercano soluzioni che possano andare bene a tutte le persone che hanno quel bisogno.
Fabio e Marco si sono allora rivolti a Innoval, “Innovazione Valpantena Lessinia”, un’associazione economico imprenditoriale dove hanno trovato la figura di un imprenditore disposto a seguirli e a dare loro gli stimoli giusti. Dopo una fase di analisi e di ricerca/sviluppo continuo durata più di un anno, a ottobre 2014 il progetto Yeah era finalmente pronto per partire.
«Innoval ci ha accolti a braccia aperte, e ci ha seguito proprio come i genitori fanno con un bambino», racconta Fabio. È stato l’apporto più importante ricevuto da Yeah da parte di Verona e del Veneto, perché né l’università né altre istituzioni hanno mostrato lo stesso entusiasmo. Il progetto di Fabio è anche un modo per migliorare il territorio. Innoval ha insegnato loro a essere imprenditori in cambio della soddisfazione di vedere dei giovani che ce l’hanno fatta.
Il digitale per vivere a pieno titolo in questa società
«Le startup sono delle ipotesi. Bisogna vedere come reagiscono agli stimoli del mercato», spiega Fabio. Yeah si rivolge in primo luogo a persone con svantaggio fisico e ai loro familiari, per insegnare come poter fruire liberamente degli strumenti della comunicazione e spiegare che questo è importante per essere maggiormente coinvolti nella società. Fabio fa un esempio. L’applicazione Whatsapp viene usata da milioni di persone per scambiare foto e messaggi. Come può servire a un cieco? Se non mi ricordo di che colore è la camicia che voglio indossare, posso fare una foto e mandarla a un amico che mi aiuti a risolvere il mio problema. In secondo luogo, Yeah dà la possibilità agli operatori pubblici e privati che operano nel mondo della disabilità (ristoranti, banche, assicurazioni, strutture sanitarie e per la terza età) di adeguarsi alle necessità dei disabili.
«Molto spesso tutto questo è lasciato al buon senso delle persone, alla sensibilità che le porta a reagire in un certo modo di fronte a un cieco. Ma il buon senso non basta – insiste Fabio – ci vogliono delle prassi professionali. Se una struttura si attrezza, non ne beneficiano solo i disabili, ma tutti. Senza contare il vantaggio competitivo sul mercato e il ritorno di immagine».
Sulla propria pelle
I laboratori di Yeah hanno un taglio prettamente esperienziale. Il valore aggiunto è che a tenere i corsi sono persone che vivono la disabilità sulla propria pelle, e quindi oltre a possedere le competenze specifiche necessarie all’insegnamento conoscono in prima persona le difficoltà e i bisogni perché sono gli stessi che vivono ogni giorno.
Fabio vorrebbe una società accogliente e non esclusiva, dove tutte le barriere architettoniche, fisiche e mentali fossero abbattute. Dove i bisogni delle persone con disabilità fossero tenuti in conto e dove tutti, da una parte e dall’altra, si impegnassero per collaborare al meglio. Fabio è convinto che ognuno di noi faccia parte di una rete e che questo è il solo modo per far funzionare le cose. «Diamoci da fare tutti: se ognuno fa la sua parte si guadagna nel complesso».
Rebecca Travaglini